Dal Settecento al Novecento: l'epopea delle masserie
Ultima modifica 13 maggio 2020
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
La colonizzazione del vastissimo, boscoso e selvaggio territorio mottolese iniziò nella seconda metà del Settecento e si manifestò in gran parte attraverso il dissodamento e la messa a coltura delle terre vergini attorno a nuove masserie. La necessità di attuare questa strategia, che puntava sulla creazione di grandi e isolate aziende coloniche, con decine di abitanti che vi risiedevano pressoché stabilmente, era dettata dalla particolare conformazione del territorio murgiano, spesso aspro e accidentato, nonché dalle notevoli distanze di molte contrade interne rispetto al centro abitato. Infatti le nuove masserie iniziarono a nascere soprattutto nella zona lontana e accidentata compresa tra Mottola e Noci. La carta redatta nel 1704 dal tavolario Gallerano, che stabilì il confine del feudo di Mottola con il territorio delle “tre miglia” di Noci, riporta infatti i nomi di alcune masserie, come la massaria de’ Contenti, prossima alle contrade Poltri e Sant’antuono, la massaria delli Padri di san Domenico delle Noci in contrada Le Murgie e la massaria di Surressa, tutte rientranti nel territorio che venne attribuito a Noci.
Masseria l’Aglio è una delle più antiche masserie del territorio mottolese. Essa si trova nella contrada di Poltri, lungamente contesa tra nocesi, martinesi e mottolesi , che è posta a ridosso dei confini territoriali dei tre comuni insieme alle contrade di Murgia, Pentima e Sant’Antuono. Il 4 giugno 1726 il regio consigliere Matteo Ferrante si espresse ancora una volta sulla annosa questione relativa alla delimitazione del confine tra Noci e Mottola. In quella occasione il canonico Meuli redasse una pianta topografica che riportava le quattro contrade contese e il limite che venne fissato tra i territori di Noci e Mottola. Questo confine passava per una enorme quercia, l’Albero della Croce, non più esistente, per poi continuare verso il vignale della masseria Quaranta, vale a dire la residenza rurale che è attualmente identificabile con la masseria l’Aglio. Infatti, la attuale masseria è tuttora divisa a metà dalla linea di confine tra Mottola e Noci.
Con l’ascesa al trono dei Borboni nel terzo decennio del secolo, anche Mottola risentì positivamente del moderato riformismo della nuova dinastia, della stabilità e dello sviluppo conseguenti, vivendo una fase di forte rilancio e crescita demografica, sociale ed economica. La positiva congiuntura economica del ‘700, “secolo del grano”, vide la nascita di un buon numero di floride “masserie di cereali”, che divennero centri di attrazione per grandi masse di lavoratori stagionali nei periodi di maggior richiesta di manodopera, come quelli della semina e del raccolto.
L’istituzione di nuove masserie costituì il principale volano della iniziativa economica ducale, rappresentando nella seconda metà del secolo l’elemento chiave della colonizzazione di un territorio feudale che era ancora in grandissima parte vergine e boscoso. Si assistette così a un forte incremento dell’edilizia rurale delle masserie sia nei latifondi dei Caracciolo, che nelle proprietà dei galantuomini, degli ecclesiastici e dei massari. Molto spesso si trattava di forestieri che trovavano conveniente investire nel territorio mottolese, ancora vergine.
Il catasto onciario registrò a metà del secolo, nel 1755, la presenza sul territorio mottolese di una sessantina di masserie. Oltre a quelle di proprietà del duca di Martina (Colombo; Canalfranco; San Basile; PanetteriaSan Basile o Basiliola; Gio: M.a Rizzo; Le Grotte di Selva piana; Giovinazzo; Chiancarello; Controversia; Lo Zoppo), se ne contavano molte altre, sia di proprietari mottolesi (Acquagnora; L’ingannato; due a Nicolia) che di galantuomini ed ecclesiastici forestieri (Bell’omo; Pentima; Maglio; due al Colompo). Parecchie erano proprietà di ecclesiastici mottolesi, (Matine; Gorgone; Lama di Coja; Sant’Angelo; San Cataldo; Pravaglio; Pozza della Maestra; Corte di Favullo), nonché dei conventi dei frati Francescani di Mottola e di Santa Maria delle Grazie dei Domenicani di Noci (Matine; Santa Maria della Lezza). Infine, vi erano quelle di proprietà di massari mottolesi (Lama di Zecchino; Nido di Corvo; Pullici; Parco della Petrosa; San Cataldo; Capo di Gabato; Torre di Ferente; Li Giardeni; due alle Matine), alle quali bisogna aggiungere almeno una ventina di “masserie di animali”, prive di costruzioni rurali ma con una importante presenza di capi di allevamento.
Questa rilevazione è precedente all’arrivo di Francesco III, il duca agricoltore che dette un grosso contributo alla colonizzazione del latifondo; tra fine Settecento e primi dell’Ottocento vennero edificate una quindicina di grandi masserie feudali (Casalrotto; Scacchiemma ; Pentima; Belvedere; Giovinazzo; Acquagnora; La Fica; Montanaro; Varcaturo; Giunta; Maldarizzi; Tamburrello; Confrateria; Sorresso).
In particolare, con Francesco, la casa ducale assunse un ruolo propulsivo nella gestione diretta delle masserie e degli allevamenti. Dopo la sua morte, le grandi aziende coloniche vennero in gran parte cedute in fitto a diversi massari privati, garantendo comunque alla casa ducale una ottima rendita economica.
Dopo la estinzione della linea ducale dei Caracciolo giunsero gli anni sanguinosi del brigantaggio, che interessò da vicino parecchie aziende rurali mottolesi. Dopo l’unità d’Italia la nuova casata de’ Sangro riprese la colonizzazione del latifondo e sino alla fine del secolo vennero costruite diverse nuove masserie (Dolcemorso; Cunegonda; Parchi del Conte; Simonetti; Isabella; Beatrice; Riccardo; Bellaveduta Sangro; Pizzoferro Argentina; Terrenuove; Stingeta; Bellavista; Iazzo delle Pietre).
Nel corso dell’Ottocento, per quanto riguarda lo sfruttamento del latifondo mottolese prevalsero l’assenteismo e la rendita parassitaria dei suoi nobili proprietari. L’ultimo duca, Riccardo, agli inizi del ‘900 cercò di attuare una politica patrimoniale molto più incisiva e per la gestione della immensa azienda volle ricorrere a manager e amministratori di maggiore qualità ed esperienza dei precedenti. Tra di essi si segnalò per le sue innovazioni l’agronomo settentrionale Gino Coppini, il quale introdusse sistemi di conduzione agraria e sperimentazioni di cui fino allora non si era avuto sentore.
Con Coppini furono incrementati gli interventi di disboscamento e colonizzazione fondiaria dell’immenso patrimonio boschivo, che erano già stati avviati sin dalla metà del secolo precedente, sostanzialmente finalizzati alla fondazione di numerose nuove masserie. Quando si affermò il regime di Mussolini, egli cercò di attuare nei possedimenti mottolesi la sperimentazione della riforma agraria fascista. La “bonifica integrale” intendeva perseguire il rinnovamento delle strutture produttive in agricoltura attraverso la sostituzione del bracciantato operaio, sempre pericoloso per il suo potenziale di lotta di classe, con una piccola imprenditoria rurale coltivatrice attiva e intraprendente, sostenuta da interventi accessibili di credito fondiario.
Il progetto mottolese di “bonifica integrale”, redatto dal Coppini nel 1929, puntava sull’incremento della conduzione mezzadrile nel latifondo, facendo tesoro delle esperienze che in quegli anni erano state attuate al nord Italia, soprattutto in provincia di Mantova. La mezzadria, avendo per fondamento la compartecipazione del mezzadro agli utili aziendali, si sostituiva al lavoro salariato ed all’affittuario, ovvero a quelle forme di conduzione che per diverse ragioni non motivavano il lavoratore agricolo a una particolare affezione nei confronti della proprietà. La compartecipazione mezzadrile, per Coppini, poteva affezionare maggiormente il lavoratore alla terra, inducendolo a praticare nella propria azienda lavorazioni e migliorie fondiarie che gli altri tipi di conduzione non garantivano.
Il primo lotto del progetto interessò seicento ventitré ettari , facenti parte delle masserie di Basiliola, San Basilio Grande, Belvedere e Le Grotte, e puntò sulla creazione di una ventina di poderi autosufficienti con una estensione variabile dai trenta ai quaranta ettari. Esso fece nascere in quattro anni il nucleo di una borgata rurale a San Basilio, nonché le cinque nuove masserie di San Biagio, Caprarizza, Il Casone, Marziotta e Coratini, ubicate in aree molto lontane e marginali, fino allora boscate. In alcune masserie furono anche installati degli innovativi silos in cemento armato, per la migliore conservazione i cereali, e infine fu creato un moderno oleificio a Casalrotto, che sin dalla fine del ‘700 era stata la masseria ducale particolarmente specializzata nella produzione di olive e olio.
Il secondo stadio del progetto, che pure era stato programmato, non venne mai avviato. Comunque, grazie a questi risultati, l’azienda ducale De Sangro si impose negli anni ’20 e ’30 come uno dei capisaldi della politica agraria fascista nella regione salentina.
Agli inizi degli anni ’50 il latifondo ducale mottolese fu tra quelli maggiormente interessati dalla attuazione della riforma fondiaria. Furono tolti ai de’Sangro ben 4.715 ettari, ovvero oltre il 30 per cento dei 14.813 ettari che vennero espropriati in totale nella provincia di Taranto. Le terre della Riforma furono quindi suddivise in quattrocento settantuno poderi di circa 8,50 ettari, e in cento sessantaquattro quote di 2,38 ettari ciascuno, che vennero assegnati a oltre seicento famiglie, in gran parte mottolesi. Furono inoltre espropriate dodici masserie (Cunegonda, Coratini, Il Casone, Iazzo delle Pietre, Riccarda, Bellaveduta, Pizziferro Argentina, Dolcemorso, Stingeta, Trappeto Vecchio, Caprarizza e San Biagio).
Alcuni decenni più tardi, alla morte del duca Riccardo, nel 1978, tutto il restante patrimonio di terre e masserie fu venduto dagli eredi a diversi privati. La grande azienda agricola ducale di Mottola, dopo oltre tre secoli di vita, non esisteva più.