Il monastero benedettino di Casalrotto

Ultima modifica 7 maggio 2020

Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati

Anche il nome di Casalrotto è molto conosciuto dagli appassionati del medioevo, per motivi diversi da quelli di Petruscio. In questo caso si tratta di un villaggio rupestre più tardo, che si è formato in seguito a un altro intervento di ricolonizzazione, questa volta religiosa, effettuato da un importante convento benedettino, con un originario nucleo ipogeo.
Dopo la rottura scismatica della chiesa di Oriente nel 1054 e la conquista dell’Italia meridionale da parte dei Normanni nell’XI secolo, i conquistatori, in pieno accordo con il papa, adottarono una accorta strategia di rilatinizzazione e ricattolicizzazione delle strutture ecclesiastiche e delle popolazioni, che erano fortemente segnate da due secoli di dominio bizantino e dalla cultura e religiosità della Chiesa d'Oriente. Questa strategia puntò in particolare sul forte coinvolgimento dei grandi monasteri benedettini. La politica delle donazioni di piccoli monasteri rurali italo-greci alle grandi abbazie benedettine dell’Italia meridionale, allo scopo di favorire l’insediamento di nuovi monasteri sui territori riconquistati, intendeva ripristinare il pieno controllo della chiesa di Roma sui territori rurali dell'Italia Meridionale,
Un esempio emblematico di questa politica lo abbiamo proprio presso Mottola, con il “Monasterium Sancti Angeli in Casali Rupto”, probabilmente fondato in età bizantina da monaci italo-greci sul nucleo della chiesa rupestre di Sant’Angelo, che nel 1081 venne donato al monastero benedettino cluniacense della SS. Trinità di Cava dei Tirreni.
La originaria dedicazione a San Michele Arcangelo fa anche pensare ai Longobardi, popolo fiero e guerriero che nutriva una particolare predilezione per l'arcangelo comandante delle milizie celesti, dominatore del male e delle forze della natura. Una particolarità costante del culto micaelico in età longobarda nell'Italia Meridionale è la presenza della grotta che, oltre al celebre santuario di Monte Sant'Angelo, vede molti esempi analoghi sparsi tra Puglia, Basilicata e Campania.
A differenza di Petruscio, la documentazione storica su Casalrotto è estremamente abbondante. Tra tutti i villaggi rupestri medioevali dell'Italia Meridionale, Casalrotto più di ogni altro è stato oggetto di un'indagine sistematica, sia attraverso le fonti documentarie che le ricognizioni archeologiche. Le prime notizie storiche sono riportate da una  "charta donationis" del 5 maggio 1081, con la quale il normanno Riccardo Senescalco, signore di Mottola e Castellaneta, figlio di Drogone d'Altavilla e nipote di Roberto il Guiscardo, con l'assenso del vescovo di Mottola Giovanni donava al monastero di Cava dei Tirreni i monasteri di Sant'Angelo, Santa Caterina e San Vito ubicati nel territorio di Mottola, e inoltre concedeva tre villani di Mottola con le loro terre per servire il monastero di Sant'Angelo.
Un documento del 1099 attesta la  donazione alla chiesa di Sant’Angelo di alcuni beni demaniali sempre da parte di Riccardo Senescalco, sottolineando la politica di rafforzamento dei poteri giurisdizionali dell'abate di Cava sui territori mottolesi.
Casalrotto raggiunge il suo massimo splendore nel XII  secolo grazie ad una serie di donazioni e di acquisti che si susseguono anche nel XIII secolo, per cui assume sempre più le caratteristiche del casale, non solo rupestre. E' probabile, infatti, che già in questo periodo il monastero fosse ubicato in una struttura costruita, non scavata, realizzata secondo le precise e tassative regole benedettine nel perimetro della attuale masseria settecentesca. Inoltre, è possibile che fosse stata costruita una nuova chiesa sub divo, anch’essa dedicata al Santo Angelo. Infatti, in una visita canonica nel 1618 si accenna ad una "chiesa maggiore" non rupestre, dedicata appunto all'Arcangelo, che a quell'epoca fu ritrovata scoperchiata, con due grandi colonne abbattute, una di marmo e l'altro di porfido, e che era posta presso un cimitero di "grande devozione".
Gli studiosi finora ritenevano che i resti di questa chiesa fossero stati inglobati nella cappella settecentesca, facente parte della masseria. Infatti, nei dintorni dell'aia, é presente una vasta ed importante necropoli d'epoca basso medievale. Recentemente, nel corso di saggi archeologici effettuati dal CNR, il radar ha segnalato nei pressi della necropoli, circa 25 metri a nord-est del casale rupestre, alcune strutture sepolte la cui natura e tipologia possono essere chiarite solo da scavi stratigrafici. Gli studiosi ipotizzano che potrebbero essere questi i resti della seconda chiesa “costruita”, dedicata al Santo Angelo.
Sempre alla architettura convenzionale apparteneva un’altra chiesa dedicata a Santa Maria, fatta realizzare tra il 1155 e il 1165  dal priore Campo, che venne e consacrata dal vescovo Riccardo di Mottola. In questa occasione appare per la prima volta il termine “de casale rupto”.
Nel frattempo continuava anche l'attività di escavazione di cripte e cappelle votive nei dintorni del monastero, di notevole fattura architettonica e riccamente decorate da affreschi e tempere, tra le quali sono ancora visitabili quelle dedicate a San Cesario, a Santa Apollonia e a Santa Margherita.
Nel XIII secolo, una bolla dell'imperatore Federico II del 1231 riconosceva  all'abate di Cava e ai priori di Casalrotto, sui territori del monastero, una autorità pari a quella dei più potenti baroni e dei conti laici. Nello stesso anno alcune sentenze ribadirono che gli abitanti dei territori del monastero  avevano l'obbligo di residenza e di espletare corvées e servitù in favore del priore di Casalrotto. L’attestazione della piena autonomia del casale giunge con una bolla del vescovo Giovanni del 1238, con la quale si confermava che le chiese di Sant'Angelo e di Santa Maria di Casalrotto erano ormai completamente svincolate dalla giurisdizione del vescovo di Mottola.
Dalla seconda metà del XIII secolo in poi, l'esosa politica fiscale di Federico II e di Manfredi, nonché gli attacchi dei baroni alla proprietà monastica, contribuirono a  svuotare progressivamente delle necessarie energie produttive i casali rupestri del Mezzogiorno, determinandone l'impoverimento e la decadenza. La crisi si accentuò sotto il governo di Carlo d'Angiò, il quale per rimpinguare l'erario rese ancor più rigido ed esoso il sistema tributario.
Nel 1254 si  iniziano ad avvertire i primi sintomi di decadenza del casale, documentati da una bolla del papa Innocenzo IV, nella quale si sconfessavano i tentativi di infeudamento dei territori mottolesi da parte dei sostenitori dell'imperatore svevo.
Al 1263 risale la donazione da parte dell'arciprete benedettino  Eustasio di Casalrotto all'Abbazia madre di Cava dei Tirreni dell'importantissimo e prezioso Codice 4. Esso rappresenta  il più importante segnale della presenza longobarda in territorio mottolese. Opera di amanuensi di scuola beneventana e risalente probabilmente al 1005,  contiene la più antica versione della saga longobarda Origo Gentis Langobardum, probabilmente redatta nel corso del VII secolo, nonché il testo completo delle leggi longobarde posteriori a Liutprando e dei capitolari che le proseguono, emanati dai sovrani franchi per l’Italia dopo la conquista del regno longobardo nel nord Italia nel 774.
La donazione all'abbazia madre di Cava del codice, che fino a quel momento era stato conservato nel priorato di Casalrotto, insieme a svariati altri tesori, rappresenta un importante indicatore della ricchezza raggiunta dal monastero mottolese nel XIII secolo, nell'ambito della tradizionale opulenza dei benedettini cluniacensi,  ma anche un segnale della grave crisi che stava per abbattersi sul casale.
Una bolla papale confermò nel 1292 i poteri giurisdizionali concessi all'abate di Cava dei Tirreni e al priore  di Casalrotto; il pronunciamento si rese necessario a causa dei continui tentativi di usurpazione da parte dei signorotti di località confinanti.
Il XIV secolo segnò un periodo di profonda crisi per Casalrotto, che subì un progressivo spopolamento. In una lettera del Giustiziere di Terra d'Otranto a Carlo d'Angiò  del 1304, si legge che le guerre di successione tra le fazioni angioine e le forti  imposizioni fiscali avevano costretto gli abitanti del casale a devastarlo e abbandonarlo. Nello stesso periodo un documento del priore Pietro di Sant’Angelo afferma che nei territori del monastero abitavano ancora circa trenta famiglie.
Nel 1324 il priorato tornava a versare un modesto contributo al vescovo di Mottola in una "collettoria vescovile", testimoniando che aveva perso la sua autonomia ed era tornato sotto la autorità episcopale. Nello stesso anno venne stipulato un contratto decennale, col quale l'abate di Cava concedeva in affitto alcune terre del monastero a Guglielmo Quintavalle di Castellaneta.
Nel 1346 un diploma di Roberto Principe di Taranto documenta una leggera  ripresa del monastero benedettino, in quanto risulta che il priore di Casalrotto esercitava il suo dominio anche sulle chiese di Santa Maria di Guaranci, San Teodoro, San Lorenzo, presenti nel territorio di Taranto, e sulla chiesa rupestre di San Cesario.
Da un documento dell'archivio di Cava, che riconfermava gli antichi diritti signorili e i poteri giurisdizionali dell'abate e del priore, apprendiamo che nel 1350 il casale era di nuovo abitato. La ripresa durò circa un decennio, ma già nel 1361 un frate della SS. Trinità di Trani, incaricato dal monastero di Cava di compilare un inventario di beni mobili ed immobili, annotava la presenza di soli due monaci. Il monastero era stato abbandonato e il casale desolato era diventato un bene improduttivo, mentre il patrimonio fondiario veniva usurpato dalle signorie vicine.
Nel 1616 i monaci cavensi vendettero il territorio di Casalrotto al marchese di Mottola Marco Antonio Caracciolo. Nel 1653 il casale, insieme all'intero feudo mottolese, venne ceduto a Francesco II Caracciolo, duca di Martina. L'attuale masseria fu fatta costruire dai Caracciolo nel '700, al servizio del vasto latifondo da essi posseduto nella zona.


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