Il Cinquecento
Ultima modifica 6 maggio 2020
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
Mottola, per le sue caratteristiche di importante roccaforte strategica, aveva conosciuto il maggiore sviluppo nel corso delle ripetute vicende belliche dei periodi svevo e angioino, ma già a partire dall’età aragonese cominciò a subire una progressiva perdita di importanza. La sua costante decadenza, soprattutto nel periodo spagnolo, è visibilmente sottolineata dai continui passaggi di proprietà del feudo e dal forte decremento demografico, nettamente in controtendenza rispetto alle città vicine.
Il Cinquecento iniziò con la conquista e distruzione della città, da parte delle truppe francesi di Luigi XII, comandate da Louis d’Armagnac, detto il Conte di Guisa, che si disputavano il Regno di Napoli con quelle spagnole di Ferdinando il Cattolico. In tale occasione il vescovo mottolese Geronimo Scudello dovette riparare a Taranto, dove morì, mentre il successore Vincenzo de Nicopoli fu costretto a stabilire nel 1502 la sua residenza a Gioia del Colle, che si trovava addirittura al di fuori della diocesi.
Dopo la definitiva vittoria degli spagnoli, per disposizione del sovrano Ferdinando il Cattolico, nel 1506 la città passò brevemente nelle mani di Onorato III Caetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Fondi e Morcone e duca di Traetto. L’anno dopo il potente patrizio lo cedette alla moglie Caterina Pignatelli e a suo fratello Ettore, conte di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia. Nel 1508, Ettore permutò Mottola con le castella calabresi di Toppolo, Mottafilocastro e Coccorino che appartenevano a un altro barone spagnolo, originario di terra d’Aragona, Giovanni Tommaso de Calatayud.
Dal 1522 per quasi ottant’anni il feudo, anche se restò sostanzialmente nelle mani di una sola famiglia, si trovò a vivere un tumultuoso avvicendamento di proprietari, che non riuscì a garantire stabilità e crescita. Dal Calatayud passò alla contessa Maria Aldonza di Beltrano, che detenne il feudo di Mottola fino al 1554, per poi venderlo a Marco d’Alagno, marito di una sua zia naturale. Alla morte di questi il feudo passò dapprima al primogenito Rainaldo, poi alla figlia di questi, Livia. Nel 1566, Livia lo cedette allo zio Carlo, la cui figlia Camilla lo vendette nel 1569 alla zia Geronima Barone, madre di Livia e suocera di Nicolò Seripanno. Quest’ultimo lo acquistò nel 1584 e alla sua morte, nel 1590, il feudo passò in proprietà al primogenito Marcantonio.
Nel corso del secolo si aggravarono le continue usurpazioni dei vastissimi territori demaniali della comunità mottolese, soprattutto da parte degli abitanti di Noci che li trasformavano in terreni recintati e a uso privato. La situazione talvolta degenerò in vere e proprie guerre, come nel 1531, quando persero la vita sette cittadini di Noci e ben trenta di Mottola nel corso di una vera e propria battaglia combattuta tra le due opposte fazioni dentro alcuni “parchi”, che erano stati recintati dai nocesi nel bosco demaniale di Mottola.
Ma la città dovette subire anche la beffa delle sanatorie di questi abusi, che vennero concesse dai feudatari in cambio di consistenti somme di denaro. Noci era un villaggio che si era costituito nel corso del XIV secolo sulle alture della Murgia mottolese senza avere un proprio territorio e nel 1407 il re angioino Ladislao aveva concesso ai suoi abitanti la comunanza degli usi civici in tutta l’estensione del principato di Taranto, quindi anche nel territorio di Mottola. I nocesi interpretarono quella di Ladislao come la concessione di una porzione di territorio mottolese intorno alla “Terra delle Noci”, per il raggio di tre miglia. Essi utilizzarono ripetutamente il documento del re angioino come prova storica, a supporto dell’origine e fondatezza della loro espansione nel territorio mottolese, attraverso una aspra vertenza territoriale e giuridica che costò molti morti e feriti e che ebbe termine solo nel 1739.
Nel 1512 il feudatario mottolese Giovanni Tommaso de Calatayud, a seguito di una supplica indirizzatagli dai nocesi, ratificò con un “rescritto” la loro interpretazione del documento di Ladislao, riconoscendo nell’intero demanio mottolese la perfetta uguaglianza dei diritti dei cittadini di Noci con quelli di Mottola. Il territorio intorno a Noci, per un diametro di tre miglia, fu dichiarato inviolabile dai mottolesi in tempo di raccolta delle ghiande, che erano indispensabili all’importante attività economica dell’ingrasso dei maiali, mentre i nocesi, viceversa, potevano praticare questa raccolta anche nel territorio di Mottola, poiché mantenevano la comunanza degli usi civici – relativi ad acque, pascoli, legna, franchigie, cacce – in tutta l’estensione del vecchio Principato di Taranto.
L’effetto immediato e tangibile di queste nuove concessioni fu il sostanziale via libera alle usurpazioni del territorio demaniale di Mottola da parte dei cittadini di Noci. In queste terre, che teoricamente dovevano essere a disposizione degli usi civici di tutti i cittadini, moltissimi appezzamenti furono disboscati e dissodati e quindi circondati da parieti, formando delle “chiusure”. Anche molti boschi vennero recintati, realizzando “parchi” abusivi che restavano a disposizione solamente di chi li aveva usurpati.
Alcuni decenni più tardi, la feudataria Maria Aldonza de Beltrano, dopo una lunga disputa in tribunale, concesse nel 1546 ai nocesi una sanatoria. In cambio di 3500 ducati che furono versati alla contessa – anch’essa occupatrice abusiva dei suoli demaniali dei cittadini mottolesi – centoquarantacinque cittadini di Noci vennero dichiarati proprietari assoluti di chiusure, masserie e parchi occupati abusivamente. Ai cittadini nocesi venne altresì ribadito il diritto di esercitare gli usi civici sul territorio di Mottola.
La tracotanza dei vicini sembrò non avere più limiti. Nel 1586, quando alcuni nocesi vennero arrestati dalle guardie rurali di Mottola, il sindaco di Noci Giulio Cesare Cassano organizzò una vera e propria spedizione punitiva, giungendo persino ad appiccare il fuoco alle porte della città e alle carceri di Mottola, per liberarli.
Malgrado tutto questo, nel 1594 venne concessa un’ulteriore sanatoria dal feudatario Marcantonio Seripanno. A seguito del pagamento di duemila ducati, egli riconobbe la legittimità delle ulteriori occupazioni abusive che erano state effettuate da altri cento ottantotto cittadini di Noci in diverse contrade mottolesi, dopo l’accordo del 1546.
Le usurpazioni e l’appropriazione indebita delle terre demaniali e delle risorse naturali mottolesi da parte dei cittadini delle Università vicine continuarono fino alla prima metà del Seicento, nel periodo di maggiore decadenza demografica ed economica della città di Mottola.
Un altro elemento di instabilità e insicurezza nel Cinquecento fu costituito dalle scorrerie dei pirati turchi, tristemente noti per la crudeltà e la ferocia dimostrate nella sanguinosa presa di Otranto del 1480. Nel 1529 il pontefice Clemente VII e l’imperatore Carlo V firmarono il concordato di Barcellona, mirante a contrastare efficacemente le loro incursioni sulle coste dell’Italia meridionale. In tal modo, l’imperatore ottenne il diritto di nominare i titolari di alcune diocesi e arcidiocesi del Regno di Napoli, più esposte ai pericoli di attacchi turchi oppure rilevanti dal punto di vista strategico e militare, riservando al papa unicamente la ratifica della loro nomina. La scelta e la nomina dei vescovi, con il consenso della Santa Sede, restò così una prerogativa del re di Napoli per oltre due secoli.
Anche Mottola fece parte di queste ventiquattro diocesi, sette delle quali erano arcivescovati (Otranto, Brindisi, Taranto, Trani, Matera, Salerno, Reggio Calabria) e diciassette vescovati (Gallipoli,Ugento, Monopoli, Giovinazzo, Mottola, Crotone, Cassano, Tropea, Castellamare, Pozzuoli, Acerra, Ariano, Trivento, Potenza, Gaeta, Lanciano e L’Aquila). Mottola rientrava tra le sedi in alternativa, ovvero le circoscrizioni episcopali che venivano assegnate alternativamente a prelati spagnoli e a «naturales del Reyno».
Fu proprio uno di questi vescovi, Giacomo o Jacopo Micheli (1579-1597), castigliano originario di Palencia, a guidare il 22 settembre 1594 nobili, gentiluomini e il popolo della diocesi di Mottola alla vittoria contro i predoni turchi nella “piantata di Scardino”, presso Massafra e le sorgenti del fiume Tara, infrangendo il mito degli invincibili pirati padroni delle coste e del destino della povera gente. Nel conflitto perirono quattro difensori e molti assalitori; la reazione dei difensori cristiani fu così decisa e strenua che il giorno dopo la flotta turca di centotrenta galee triremi, che era comandata dal figlio di Scipione Cicala, celebre condottiero dei Giannizzeri di origini genovesi, levò le ancore dal golfo di Taranto e si diresse verso Gallipoli, liberando le popolazioni dal loro incubo.
In questo difficile contesto ambientale, che subì anche il flagello di parecchie epidemie e pestilenze, la città cominciò a spopolarsi. Dai 261 fuochi rilevati del 1532, circa milletrecento abitanti, si arrivò a fine secolo ai 164 fuochi registrati nel 1595, vale a dire poco più di ottocento anime. La decrescita venne in parte compensata dall’arrivo di immigrati dall’Adriatico orientale, a partire dalla metà del secolo. Un massiccio esodo di popolazioni slave dai Balcani si era verificato infatti a seguito degli attacchi turchi alle isole veneziane dello Ionio e dopo la caduta della fortezze di Modone e Corone in Morea, che i Turchi sottrassero a Carlo V nel 1534. Da allora vi era stato un costante susseguirsi di nuovi arrivi e sbarchi sulle coste italiane di slavi, greci e albanesi e numerose colonie di “schiavoni” si insediarono anche nel centro mottolese.