La Mottola del Settecento: il catasto onciario del 1755
Ultima modifica 6 maggio 2020
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
Una straordinaria documentazione della Mottola del Settecento è fornita dal catasto onciario del 1755. Esso contiene una grande quantità di dati estremamente illuminanti sulla vita della città a metà del secolo, colta nell’atto della transizione dalla stagnazione allo sviluppo. La popolazione mottolese ammontava complessivamente a 1507 residenti (789 maschi e 718 femmine), circa il 10% dei quali originario di centri vicini, soprattutto Gioia del Colle, Martina Franca, Putignano, Alberobello, Locorotondo, Noci, Turi e Massafra. I nuclei familiari erano complessivamente 415, con una media di 3,6 componenti . Le donne partorivano i primogeniti in genere tra i 18 e i 30 anni, ma non mancavano casi limite di gravidanze a 11 oppure a 57 anni. L’età media era molto bassa, 25 anni, e oltre un terzo della popolazione aveva meno di 14 anni. L’età lavorativa iniziava infatti a quattordici anni e la popolazione compresa nella fascia tra i 14 e 40 anni era quella più numerosa, con il 43% del totale. Il 17% dei mottolesi aveva tra i 40 anni e i 60 anni, e coloro che superavano questa soglia di età, arrivando alla vecchiaia, erano appena il 3%. La mottolese più anziana aveva 80 anni.
La popolazione era quasi tutta concentrata nel centro abitato. La zona sud comprendeva le abitazioni attigue alla Porta Vecchia, al castello, alla taverna, e quelle poste nella strada della Piazza, presso la torre dell’Orologio, il municipio e le carceri, e poi ancora nel pettagio Chiesa, davanti alla chiesa matrice. Nella zona est vi erano i popolosi pettagi della Schiavonia e di San Giacomo, limitrofo alla via Belfiore che divideva in due il centro abitato. A nord, a ridosso della Porta Nuova vi erano il pettagio san Nicola e quindi la popolatissima strada Mater Domini. La zona ovest della cittadina comprendeva il pettagio del Purgatorio, e quelli più piccoli del Fornello Vecchio e di Santa Lucia.
Fuori dalle mura abitavano solo una ventina di nuclei familiari, soprattutto in abitazioni e casalini lungo la strada nuova o maggiore, e poi ancora lungo la strada del convento, l’Orto della Noce, e nel romitorio dell’Annunziata.
Naturalmente, nella città, che era sede di diocesi, si contava una nutrita schiera di ecclesiastici, circa cinquanta tra canonici del capitolo, sacerdoti, diaconi, novizi, suddiaconi, accoliti e chierici. Per il resto, il tenore di vita della popolazione risultava molto modesto. Vi erano quattro famiglie di possidenti, che “vivono del loro” e solo sei cittadini esercitavano le professioni liberali, come il medico, lo speziale di medicina, il notaro, l’esattore. Appena nove erano gli studenti o “scolari”. Quindi si registravano ventotto artigiani – calzolaio, conciatore di pelle, fabbricatore, falegname, fabbro ferraro, tintore, sartore, scarparo, zuccatore – e otto addetti a servizi vari, come barbiere, galessiere (cocchiere, guidatore di calesse a cavalli), servente, vaticale (piccolo commerciante ambulante). Vi erano, inoltre, tre addetti alla milizia cittadina.
Nella cittadina vi erano tre molini, ai quali si aggiungevano altri due, con panetteria, a San Basile, tutti di proprietà del duca di Martina. Inoltre, nel territorio si contavano dieci neviere che sostenevano un fiorente commercio del ghiaccio.
Naturalmente, l’economia della Mottola del Settecento era costituita sostanzialmente dall’agricoltura e dall’allevamento; pertanto, il grosso degli occupati si registrava in questi settori, contando la grande maggioranza degli addetti con 35 massari, 287 bracciali, 23 foresi e 3 pastori e 1 vaccaro. In questi vitali settori economici, la città stava uscendo dall’immobilismo conservatore dei secoli precedenti, che aveva “imbalsamato” il territorio, fino allora sostanzialmente boscato e pascolo, limitando la creazione di valore aggiunto e ricchezza. Il dissodamento e la lavorazione della terra attraverso nuovi seminativi, vigne, colture orticole, oliveti e frutteti è testimoniato dalle descrizioni del catasto, che riporta dettagliatamente lo stato colturale delle circa centrotrenta contrade del vastissimo territorio rurale mottolese. Su quasi milleduecento unità fondiarie complessive, più della metà erano concentrate in una dozzina di contrade poste nelle immediate vicinanze della cinta muraria, che poi erano facilmente raggiungibili dal centro abitato entro il quale risiedeva la stragrande maggioranza della popolazione. Queste contrade erano Porcili, Don Tomaso, Le Matine verso nord; La Fontana, La Taverna, La Padrella, Le Fontanelle, Sant’Angelo, Cappiello e Nicolia verso nord est; Li Pantoni, La Serrizzola e La Sterpina, verso est. In queste contrade la proprietà fondiaria era estremamente frazionata e polverizzata; quasi tutti i nuclei familiari dei residenti coltivavano in esse uno o più lembi di terra, di proprietà oppure nella loro disponibilità attraverso contratti di fitto e patti agrari stipulati con gli enti ecclesiastici che avevano buona parte della proprietà della terra, come la mensa vescovile, il capitolo della cattedrale e il convento dei Francescani.
Nel resto del territorio, soprattutto nelle contrade più lontane dal centro abitato, si stava intensificando la colonizzazione dei boschi e dei pascoli attraverso il progressivo insediamento delle masserie, che catalizzavano gli investimenti di ricchi possidenti, gentiluomini e religiosi. Il catasto del 1755 riporta almeno ventotto masserie di cereali e di animali esistenti nel territorio di Mottola, nove delle quali erano del duca di Martina, dieci di proprietà di religiosi e fondazioni ecclesiastiche, cinque appartenenti a gentiluomini ed ecclesiastici forestieri e quattro a gentiluomini e proprietari mottolesi. A queste bisogna aggiungere i nuclei originari di almeno una trentina di altre masserie, soprattutto di animali, che stavano nascendo soprattutto per iniziativa dei massari privati che praticavano l’allevamento del bestiame.
Infatti, l’allevamento non era più una prerogativa assoluta della casa ducale. All’inizio del secolo gli allevamenti ducali contavano la bellezza di 600 capi bovini, 5.500 ovini, 1.000 capre, 1.000 maiali, 100 cavalli e puledri e 150 giumente. Alla metà del Settecento questi numeri erano parecchio diminuiti, anche se il duca di Martina poteva ancora vantare una dotazione zootecnica di tutto rispetto, con 177 capi bovini tra vacche e bovi aratori, 53 giumente, 116 animali neri, 863 pecore e 587 capre di corpo o lattare. In compenso, sul territorio era cresciuta l’attività zootecnica degli altri soggetti economici; complessivamente, i proprietari privati mottolesi e forestieri avevano la proprietà di circa il doppio degli animali, rispetto al feudatario, ovvero 365 bovini, 112 equini, 201 suini, 1655 ovini e 277 caprini. A questi bisogna aggiungere i capi di proprietà degli ecclesiastici, ammontanti a 136 bovini, 13 equini, 40 suini, 480 ovini e 210 caprini.
Si intravede quindi l’esistenza di un tessuto economico locale che cominciava a liberarsi dal giogo assolutista del latifondo aristocratico, che investiva nell’agricoltura, nell’allevamento e nel commercio e che formava nuove figure di imprenditori e lavoratori. Naturalmente, non erano tutte rose e fiori. Presso le nuove masserie talvolta risiedevano stabilmente i proprietari o i massari, molto più spesso i “foresi”, ovvero giovanissimi lavoratori le cui famiglie pattuivano la continua residenza lavorativa come bracciali o pastori presso le masserie, in cambio di vitto, alloggio, abiti, cure mediche e retribuzioni in natura, e che potevano tornare in paese solo ogni quindici o trenta giorni. A metà settecento a Mottola se ne contavano ventitré, di età compresa tra gli undici e i diciannove anni, due dei quali capifamiglia; uno di essi aveva addirittura solo sei anni.