Monumento al cacciatore
Ultima modifica 7 maggio 2020
Testo di Sergio Natale Maglio - © Tutti i diritti riservati
Placido, duca di Martina, dopo il suo ritorno dall’esilio parigino trascorreva le sue giornate nella principesca abitazione partenopea in via Nilo, nel lusso e nelle piacevolezze, immerso nell’arte e nella cultura. Da tipico esponente della concezione feudale aristocratica dell’ancien regime, la sua visione del mondo voleva che la propria nobile condizione, con tutto il relativo corredo di agi, vizi e privilegi, provenisse da una sorta di investitura divina e quindi, come tale, fosse intangibile, indubitabile e indiscutibile. Il suddito era un subalterno, obbligato dal destino a tirare fuori dalle proprie tasche il denaro necessario a compiere la divina missione di compiacere e sostenere il padrone, il quale doveva a ogni costo permanere nello «stato in cui Iddio ci ha messo»!
Nella città partenopea Placido continuò a collezionare oggetti d’arte e a partecipare alle più importanti iniziative artistiche. Però, ben presto la sua esistenza fu funestata dal tragico evento della morte dell’unico figlio Riccardo Maria (* 3-7-1855 + 3-4-1881), avuto dal matrimonio con Maria Cunegonda Caracciolo di Santa Teodora, il quale si suicidò il 3 aprile 1881. Secondo la versione ufficiale, diffusa dal padre, il giovane era morto a causa di un incidente durante una partita di caccia. Alcuni autori e la maggior parte dei siti araldici riportano invece che si fosse suicidato a Parigi.
In realtà, sembra assodato che Riccardo si sia ucciso a Napoli, per un amore non corrisposto da parte di una donna sposata, conosciuta in un salotto del Vomero. Una sera egli si accorse che la donna, durante una partita a carte, faceva dei segni al marito per farlo vincere; il duca abbandonò il tavolo da gioco per recarsi a uno spettacolo presso il teatro Sannazaro e il mattino seguente si suicidò con il proprio fucile da caccia, dopo aver ordinato al cameriere di scendere in giardino e cogliere per lui la rosa più bella.
Placido, distrutto dal dolore, prese la decisione di ritirarsi presso la sua residenza mottolese nella tenuta di San Basilio, ove tra il 1883 ed il 1884 fece erigere il Monumento al Cacciatore, che venne scolpito dallo scultore napoletano Raffaele Belliazzi su progetto del suo vecchio amico collezionista e architetto Giuseppe Barone.
Il monumento, in stile neogotico, era realizzato interamente in marmo di Carrara, eccetto gli scalini ed i poggi che erano in travertino di Bellona. Alto 20 metri, si ispirava alle guglie di Notre Dame di Parigi e riproduceva il giovane aristocratico mentre era a caccia col suo cane.
Sulla base erano affisse quattro toccanti iscrizioni, una per lato, nelle quali si legge:
Consacrato / Dal dolore di un padre / Alla memoria / Del suo figlio adorato / 1885
Riccardo Maria de’Sangro / Conte de’ Marsi / Di questo luogo / Idolo e vita / Unica speme del genitore
Di cuore benefico / Colto di mente, artista / Delusione fatale! / Disparve all’improvviso / Qual astro malinconico / Che nel brillar si spegne.
Nato il 3 luglio 1855 / Da Maria Caracciolo / Dei duchi di San Teodoro / E da Placido de’ Sangro / Duca di Martina / Morto il 3 aprile 1881
Il monumento venne distrutto completamente da un fulmine nella notte tra il 5 e 6 marzo 1974. Attualmente sono ancora visibili solo alcuni frammenti della base. Il suo modellino in legno di tiglio e noce fu esposto in occasione dell’Esposizione Generale di Torino del 1884 ed è conservato presso il Museo Civico “Giuseppe Barone” di Baranello (CB).